Durante il webinar Private equity che impresa! organizzato con il Dipartimento economia della Lega, abbiamo esplorato il mondo del private equity rispetto all’economia italiana con i nostri ospiti: Alberto Bagnai, Angelo Miglietta, Stefania Peveraro, Walter Ricciotti e Massimo Ungaro Il senatore Alberto Bagnai, ha sottolineato l’importanza del tema per le condizioni generali del sistema creditizio del Paese, sia in un’ottica congiunturale, data la necessità di sostenere la ripresa, che in un’ottica strutturale, dato che il mondo di tassi negativi in cui viviamo e l’evoluzione della regolamentazione micro- e macroprudenziale rendono sempre più complesso per le imprese accedere al credito. Si pone così il tema di facilitare, incentivare, disciplinare, far conoscere l’accesso all’equity, come forma alternativa di finanziamento in un momento in cui il nostro tessuto produttivo ha subito uno strappo molto grave per via della pandemia. Allo stesso tempo dal punto di vista del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, le normali dinamiche macroeconomiche a seguito di uno choc negativo, offrono opportunità di crescita che vanno sostenute anche dalla finanza privata con forme innovative che si adeguino ad un tessuto come il nostro fatto di PMI che vanno aiutate a crescere. Successivamente siamo entrati nel vivo della tematica con il professor Angelo Miglietta, che ci ha spiegato che cosa è il private equity, come funziona, come può essere utile per le imprese e ci ha dato qualche suggerimento su come migliorare la legislazione in Italia: “Questo tema è di estremo interesse anche perché non si capisce mai abbastanza quanto siano importanti taluni strumenti di finanza per migliorare la qualità della vita delle persone oltreché la ricchezza di una società. È importantissimo capire il private equity perché, forse oggi, è lo strumento più importante a disposizione di una società fondata sul libero mercato, una società democratica, per favorire la crescita della ricchezza della società e l’aumento dell’occupazione. Per capire che cosa è il private equity si può partire dal senso delle parole: partendo da Equity, la parola trova in italiano due traduzioni che la dicono lunga sulla diversità di approccio; le parole come dicevano i greci sono logos e diventano dunque anche elementi per capire la scienza e ciò di cui si parla. Nel linguaggio economico-aziendale, l’Equity è il patrimonio netto contabile, altrimenti detto capitale d’impresa. Questo è il linguaggio della ragioneria, cioè della disciplina che si occupa di rappresentare gli accadimenti dell’impresa e quindi la vita della stessa. Mentre dalla finanza sappiamo che l’Equity, è più correttamente tradotto come: quella parte di fonti di finanziamento di cui l’impresa ha bisogno per poter svolgere la propria attività e quindi per poter fare i propri investimenti. Per capire veramente il Private Equity dobbiamo guardare alla visione della finanza, che non è proprio una visione connaturata con la storia del nostro Paese. Non è vero che è capitale proprio dell’impresa, ma è capitale che gli investitori decidono di investire nel finanziamento dell’impresa, lo fanno con un elevato livello di rischio; infatti non è un investimento fatto con la certezza da parte degli investitori che sarà restituito in una certa data e con un certo rendimento. È invece un rendimento che è completamente aleatorio ed è collegato con la capacità dell’impresa di fare utili, usando appunto il denaro ricevuto come capitale di rischio per poter far partire la propria attività; il capitale di rischio è importantissimo perché se non c’è, difficilmente una banca può prestare i soldi e capitale di debito, per coprire e implementare il fa bisogno di una impresa e permettere a quell’impresa degli investimenti. Il private equity è uno strumento che canalizza risorse finanziare dei risparmiatori verso il mondo dell’impresa dando quella parte di finanziamenti più preziosa. Il capitale di rischio è veramente l’ossigeno e il punto di partenza per poter consentire alle imprese di operare. Ciò vale ancora di più per le piccole e medie imprese che rappresentano la colonna portante della capacità competitiva del nostro Paese, che hanno dimostrato facendo le multinazionali tascabili di non essere dei peter pan che non vogliono crescere mai ma di essere piuttosto delle agili strutture che sanno mantenersi competitive nella complessità della concorrenza. Aggiungendo il termine Private, oltre che Equity, dobbiamo distinguere dalla traduzione in italiano di Private e Public, dal senso inglese di questa definizione, ricordiamo che infatti questi sono strumenti che nascono con la finanza, quindi con la visione meno formale ma più sostanziale che è tipica della cultura anglosassone in materia economica finanziaria. Private lo tradurremo con Privato, come Public con Pubblico, ma in inglese c’è un’altra parola che è State, quello che noi chiamiamo pubblico per gli inglesi è dello Stato, dell’Amministrazione Pubblica, mentre quello che loro chiamano Public è: tutto ciò che è accessibile per le persone che ci sono in una società. È quasi l’idea di Res Pubblica, cara alla cultura latina; quando parlano di Private gli inglesi vogliono indicare il fatto che quel determinato investimento (in questo caso in capitale di rischio) non è Public, cioè disponibile per tutti come sono le azioni di una società quotata, quelle si chiamano public company in inglese perché non hanno nessun azionista che le controlla. Quando parlano di private intendono capitali di singoli investitori che altrimenti non potrebbero entrare dentro quell’impresa. La magia dell’equity sottoforma di private e che combina capitali che non saprebbero andare alle imprese ma che hanno bisogno di capitali per la loro attività, quindi è un combinare domanda ed offerta. Il grande contributo di chi fa private equity è che lo fa professionalmente, si preoccupa di raccogliere capitali e poi il gestore li mette in tante imprese diverse, operando un investimento diversificato che diventa per definizione meno rischioso. Quindi viene ridotto il rischio dell’investimento e dà più valore ad esso. Il gestore di private equity non solo valuta le società (ha una capacità professionale di capire se l’investimento potrà andare bene) ma diventa una sorta di super consulente di quelle attività, aiutando a migliorare tante realtà nel mercato, soprattutto le pmi, a essere più competitive. L’aiuto del gestore del private equity non è soltanto dal lato dell’investitore dal lato della diversificazione e attraverso una gestione tradizionale, ma è anche per l’impresa perché aiuta quell’imprenditore a essere più operativo. Quindi il private equity è uno strumento importante per rendere più competitivo l’ambiente paese, più efficace e efficiente il risparmio (non quello che va alla ricerca della speculazione ma quello che va sul reale). Non si fa denaro con denaro, ma 19 denaro con buoni investimenti, questa è una finanza sana che diventa ontologicamente etica perché crea ricchezza e occupazione”. Stefania Peveraro ci ha spiegato che cosa è BeBeez e la sua attività di informazione su ciò che succede nel settore per fare delle previsioni rispetto a ciò che accadrà in futuro in Italia: “BeBeez è giornale online focalizzato sul mondo del private capital, si tratta di un concetto un po’ più ampio rispetto al private equity. Il giornale tratta di aziende non quotate e si occupa di investimenti sia nell’equity, quindi del capitale di rischio di aziende che sono già strutturate e ben funzionanti, sia del capitale di rischio di aziende piccole, appena partite, cioè di venture capital. Viene analizzato anche il private debt cioè finanziamenti a imprese non quotate da parte di soggetti diversi dalle banche o emissioni di obbligazioni, sempre da parte di imprese non quotate. Viene esaminato anche il tema dei crediti deteriorati sui libri delle banche e noi ci concentriamo in particolare sui crediti verso le imprese. Se un’azienda è andata male o è in grossa difficoltà, in questo caso ci sono investitori ad hoc che investono. Tutto questo viene affrontato giornalmente con BeBeez e seguendo questo mondo e questo mercato si riescono ad avere anche dei dati che poi riuniti in un report e in un database permettono di fare un po’ di previsioni e ragionamenti sul presente e sul futuro. Parlando di numeri nel quadro del mercato italiano, a tal proposito è stato redatto un report pubblicato a luglio sui primi sei mesi del mercato del private equity. Da gennaio a fine giugno sono state contate 236 operazioni di private equity. Questo significa operazioni di tutti i generi, fatti da investitori che investono con l’approccio del private equity, quindi in aziende non quotate. Non devono essere per forza dei fondi strutturati come tali, possono essere anche delle holding di investimento, dei club deal (proprio dei club di accordo), fatti da un gruppo di privati (magari manager, stessi imprenditori che si mettono insieme per andare a investire) piuttosto che operazioni fatte da spac, cioè un veicolo particolare che viene quotato in borsa (e in questo caso, Borsa Italiana). Dopo aver raccolto dei soldi dagli investitori e individuata una società nella quale investire, se la maggior parte degli investitori-soci della Spac sono d’accordo, allora la Spac si fonde con questa società, che si ritroverà quindi quotata. Esistono anche operazioni non proprio fatte su aziende, ma su veicoli che in pancia hanno progetti di impianti fotovoltaici o eolici e anche questo viene mappato da BeBeez. Le 236 operazioni citate possiamo dire che sono tante: nei primi sei mesi del 2020, non avevamo avuto 236 operazioni ma solo 131 quindi molte meno. L’anno scorso c’è stato comunque un bel recupero perché nel secondo semestre 2020 c’erano state molte operazioni, tanto che alla fine le operazioni erano state 360. Se adesso sono state eseguite 236 operazioni supereremo sicuramente questo numero alla fine dell’anno. C’è stato anche un cambio di passo, l’anno scorso nel periodo della crisi la maggior parte delle operazioni è stata fatta sui portafogli: questo vuol dire che gli investitori che avevano già delle aziende partecipate o controllate hanno preferito lavorare su quelle aziende e andare a controllare se c’era da dare nuova finanza e in caso gli veniva data. Se vedevano opportunità sul mercato per farle crescere, compravano altre piccole aziende piuttosto che andare a comprare aziende nuove, perché nessuno sapeva cosa sarebbe successo ed era difficile valutare dei piani di sviluppo di un’azienda in un momento in cui avevano poca visibilità (questo è già difficile calcolarlo per un’azienda che conosci perché l’hai già in portafoglio, farlo per una nuova è complicato). In gergo si sono fatti molti più add-on o build-up, costruire o aggiungere, partendo da un’azienda base che diventa un po’ una piattaforma e su quella si costruisce un gruppo più grande per arrivare a disinvestire. Questo perché il fondo fa questo di mestiere, quota in borsa o rivende a una soggetto industriale oppure a un altro fondo. Per dare un’idea del numero quest’anno abbiamo avuto in questi primi 6 mesi 57 operazioni di add-on fatte su aziende italiane e 28 su aziende estere, questo vuol dire che delle aziende italiane hanno comprato a loro volta delle aziende straniere. L’anno scorso in questo stesso periodo avevamo 58 add-on sull’Italia e 6 sull’estero, quindi più o meno simile. In tutto l’anno le operazioni sono state ben 125 più 13, un buon numero che è praticamente il doppio rispetto al 2019 ed è qui che possiamo vedere la differenza. La cosa interessante è che nella prima parte dell’anno scorso il numero delle operazioni dirette fatte dai fondi strutturati era bassa, perché i fondi preferivano lavorare sul portafogli e nei primi sei mesi avevano fatto 36 operazioni rispetto a quest’anno che ne hanno fatte 96. Possiamo dire che c’è una bella differenza ed è tornata la fiducia e la voglia di provare a fare cose nuove. I club deal sono sempre una decina, l’anno scorso come quest’anno e investimenti in energia ne abbiamo avuti abbastanza. Le spac non hanno fatto nulla, ci sono operazioni di restructuring cioè ristrutturazione aziendale che ci sono quando abbiamo delle dimensioni medio-grandi e i fondi riescono a intervenire anche sull’ equity. Spesso ci sono due tipi di fondi che in questo caso vanno a lavorare: ci sono quelli turnaround, che specificatamente investono direttamente nel capitale delle aziende in crisi e possono già rilevare direttamente da una procedura fallimentare, mentre in altri casi passano dal finanziamento cioè i famosi crediti deteriorati e in particolare gli UTP o unlikely to pay cioè le inadempienze probabili. In questi casi le banche possono decidere di gestire questi crediti con le proprie strutture oppure se non sono in grado, o non hanno voglia per vari motivi, decidono di cedere questo credito a degli investitori specializzati. Se si tratta di crediti molto piccoli li cedono tutti insieme in dei portafogli mentre se sono crediti di una dimensione abbastanza importante (quindi da 10 a 15 milioni in su) si tratta di singole operazioni che vengono organizzate e poi cedute a questi fondi. In sintesi in questi primi sei mesi abbiamo avuto sette operazioni di questo tipo, l’anno scorso più o meno erano sei. Non sono un numero infinito perchè sono operazioni piuttosto complicate ma che comunque ci sono. È interessante vedere quanto lavorano gli investitori esteri in Italia: per quello che riguarda gli investimenti diretti, nei primi sei mesi sono state fatte 96 operazioni direttamente dai fondi, di cui 46 sono di emanazione straniera e parliamo di circa un 48%. L’anno scorso in tutto l’anno la percentuale era più bassa perché abbiamo avuto 48 operazioni estere su un totale di 133, quindi il 36%. Per quanto riguarda i settori all’estero si tratta di servizi finanziari o di moda ma comunque abbastanza distribuiti. Un altro tema su cui gli esteri sono entrati e su cui sono abbastanza ferrati è il delisting si tratta di togliere dalla borsa. Un esempio è la società Cerved, quotata in Piazza Affari che si occupa di informazioni finanziarie sulle 20 aziende e della gestione di crediti deteriorati. Su Cerved è stata lanciata un’opa da un gruppo estero che a sua volta si occupa di business information, che quindi non è di per sè un fondo ma agisce come tale perché negli ultimi 20 anni ha fatto una trentina di acquisizioni. Il gruppo, ION Investment, è stato affiancato in questa operazione dal fondo GIC, un fondo sovrano di Singapore che è effettivamente un operatore di private equity. Abbiamo invece il fondo italiano, FSI, che si affianca con un finanziamento e si è impegnato a sottoscrivere una obbligazione convertibile del veicolo che ha lanciato l’Opa. Questo gruppo si è assicurato sostanzialmente il 78% di Cerved in opa. Già l’inizio dell’anno, Ima, un gruppo meccanico molto noto con sede a Bologna è stata delistata opera di BC Partners uno dei colossi del private equity europeo che si è affiancata alla famiglia Vacchi e insieme hanno deciso di fare un percorso diverso. A parte il tema opa, in generale gli operatori stranieri sono interessati all’Italia: due fondi tedeschi per esempio che hanno appena aperto ufficio a Milano Potremmo dire che vi è una certa attenzione sul mercato italiano forse anche a seguito del periodo pandemico dove il capitale sociale è stato un po’ eroso e le riserve se ne sono un po’ andate, al di là di turnaround, che purtroppo ci sono. Tornando al tema dei crediti deteriorati, lo stock sui libri delle banche italiane negli ultimi anni è sceso, ma questi crediti non sono scomparsi bensì passati ad altri investitori. Uno di questi è Amco, controllato al 100% dal Ministro delle Economie Finanze ma ci sono tanti altri attori, sia italiani sia soprattutto stranieri, a loro volta impegnati nella gestione di questi crediti. Successivamente è intervenuto Walter Ricciotti, CEO di Quadrivio Group, un gruppo privato e indipendente interamente detenuto dal management che gestisce fondi di private equity. “Siamo partiti nel 1999 e da oltre 20 anni investiamo in aziende private, prevalentemente italiane, poi aiutate a crescere all’estero. Siamo specializzati sulle pmi, con un fatturato normalmente tra i 10 e 60 milioni di euro al momento dell’investimento, con l’obiettivo che poi diventino molto più grandi. Si tratta di imprese che vanno già bene ma che hanno bisogno di un partner con cui fare una parte del percorso di crescita per quei 4-5 anni in cui siamo soci con gli imprenditori. Ci consideriamo un fondo imprenditoriale più che finanziario, investiamo insieme agli imprenditori e facciamo prevalentemente investimenti di maggioranza in cui l’imprenditore/imprenditrice resta con una quota molto significativa che poi una volta uscito dopo i tipici 4-5 anni, con un altro partner farà un’altra parte del percorso di sviluppo dell’azienda. Gestiamo fondi tematici e in questo momento ne abbiamo tre in gestione: uno focalizzato sul made in Italy, uno sulla digitalizzazione delle imprese, Industry 4.0 Fund, e uno dedicato alla Silver Economy. L’Italia è il paese perfetto per il private equity perché è un mercato fatto da tante piccole medie imprese, ci sono poche aziende grandi e tantissime eccellenze in tanti settori. Ci sono tante piccole-medie aziende che hanno bisogno di raggiungere una mggiore dimensione e Quadrivio Group cerca di facilitare la creazione e l’aggregazione di campioni nazionali che diventino globali e per fare questo c’è bisogno della finanza. Il mercato italiano è cresciuto molto negli ultimi anni ma rispetto ad altri, come in Francia, il mercato del private equity è 3-4 volte più grande e il venture capital ancora di più, questo perché gli investitori francesi istituzionali e privati hanno investito molto di più in fondi private equity francesi. In Italia gli investitori istituzionali hanno cominciato gradualmente negli ultimi 10-15 anni a investire in private equity ma c’è ancora molta strada da fare. Bisogna aiutare a canalizzare l’enorme risparmio privato italiano e quello istituzionale a investire di più in Italia. Va bene la diversificazione ma avere una parte piccola dedicata all’Italia è un’opportunità persa per il nostro Paese. Un’opera di moral suasion è quasi più importante di uno stimolo fiscale. Un esempio del nostro modo di lavorare è quello realizzato qualche anno fa, quando Quadrivio Group ha aiutato l’azienda vicentina Sonus Faber, che realizza casse acustiche. Quando abbiamo investito fatturava 10 milioni di euro e poi abbiamo realizzato 4 acquisizioni negli Usa comprando altre 4 aziende di cui la più famosa è Macintosh e così facendo abbiamo creato un gruppo da 100 milioni di euro che ha base in Italia. Ora stiamo facendo simili progetti di consolidamento anche nel settore dell’abbigliamento casual e del vino. Infine è intervenuto Massimo Ungaro, deputato e collega in commissione finanze che ha lavorato in questo ambito, facendo qualche considerazione su cosa dovrebbe esser fatto, in particolare da parte dei parlamentari, per stimolare il settore sull’economia reale:” In un paese prevalentemente composto da pmi le aziende non sono quotate. C’è un ostacolo importante in ambito di investimenti più orientati a investitori pazienti che possono restare e avere un impegno con un investimento di più anni in confronto ai mercati e alle aziende quotate. Il private equity è un settore in grande espansione, la politica si è concentrata sul venture capital negli ultimi anni, come diceva la dottoressa Peveraro, con aziende ristrette alle pmi innovative. Per esempio gli sgravi fiscali che oggi esistono per gli investimenti in venture capital sono ristretti solo a certi tipi di aziende ma potrebbero essere allargate. Sul private equity non credo ci sia bisogno di un preciso intervento, ma ci sono due cose che potrebbe fare la politica: la prima è la divulgazione dell’importanza di informare gli investitori, family Office, perchè le assicurazioni sono i più grandi attori italiani che investono in private equity. Danno l’opportunità attraverso investimenti di farle ristrutturare o crescere anche se sono piccole come Quadrivio. Se pensiamo per esempio al patrimonio destinato lanciato da Cdp negli ultimi mesi, che con Giulio Centemero in commissione finanze, è stato esaminato l’atto ministeriale che ha lanciato il decreto del patrimonio destinato e che ha permesso a Cdp di fare delle operazioni di private equity. Cdp entrerà nel capitale sociale di molte aziende italiane non quotate. Lì sarà molto importante avere il coinvolgimento di fondi privati, una sinergia e un dialogo importante affinché gli investimenti aumentino la credibilità di alcune aziende e convincano altri fondi privati di private equity ad aumentare i loro investimenti. È importante ricordare che attirare i fondi stranieri di private equity dall’estero in Italia non è soltanto importante per portare e gestire il massimo capitale di rischio ma è anche importante e utile per accrescere le nostre aziende”. Questi sono gli stessi stimoli che sono arrivati dalle imprese in questo webinar, lo sforzo più grande non inteso come strettamente attività legislativa è quella di fare cultura sul 21 tema. Anche l’attrazione dall’estero di investitori, nella fattispecie fondi di private equity o altri tipi di investitori, è positiva non solo perché si crea know how ma anche perché si aprono dei mercati. Parlando invece brevissimamente del patrimonio destinato è importante che ci sia un grosso ecosistema di fondi perché laddove c’è è perché questo investimento non può essere completamente sostenuto nel pubblico. A livello di norma deve esserci una quota da parte del privato.
Link al webinar: https://www.facebook.com/100024310927333/videos/996038801241570/
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